L’arrivo della Medicina in Roma 


L’arrivo della Medicina in Roma



La medicina in Roma ha attraversato tre periodi:

1) uno di origine autoctona, italica;

2) uno di transizione, misto di elemento autoctono e di importazione greca;

3) uno detto “delle scuole”, perchè in Roma si impiantarono sètte mediche ben definite di origine greca.


La medicina autoctona

Non si sa bene se all’inizio della storia di Roma esistesse la figura del medico vero e proprio o quella di “uomini curanti”. Certamente, rappresentante della medicina, nell’ambito domestico era il “Paterfamilias”, di cui nella latinità parlano Catone e Columella.

Columella

Scrive Columella:

Non si rinchiuda il padrone in casa, appena venuta la sera, ma guardi bene che nessuno dei suoi operai sia ferito o malato: in questo caso lo curi e lo faccia ricoverare “in valetudinario”.

La casa romana aveva un locale di ricovero per malati di famiglia: un’infermeria in cui in seguito furono adibiti i “servi medici”.
E anche Catone accenna a questa incombenza nel suo “
De re Rustica”.
Ovviamente, compito del paterfamilias era trasmettere le sue conoscenze mediche al proprio figlio.

Virtù di erbe, infuse o decotte in vino o in acqua, stanno alla base di queste nozioni empiriche che solo la pratica ha potuto insegnare. Ad esse si uniscono gli elementi di magia, più o meno diffusi e accentuati, che completano e spesso si integrano con le virtù reali dei “semplici” adoperati.
Esponente di questa medicina empirica in Roma fu Catone il Censore.

Catone il Censore

Un busto di Marco Porcio Catone chiamato anche Catone il Censore (234-139 ac)

Catone non fu medico, ma si occupò assai di medicina. Egli rappresenta bene la figura del curatore, quale visse nell’epoca definita da Plinio “senza medici”. Oltre che un semplice curatore, Catone fu scrittore di medicina domestica ed una preziosa testimonianza di quell’epoca così oscura per quanto riguarda l’arte sanitaria. Epigono della romanità pura, in un periodo di transizione, egli riassunse e riepiloga nella sua opera e nella sua figura i 500 anni circa di romanità che precedettero la sua apparizione nel campo della storia.
Catone era nato a Tuscolo nel 234 ac e visse molto tempo in campagna. Combatté nella seconda guerra punica, fu console, vinse una campagna in Spagna, ebbe gli onori del trionfo, fu nominato censore e morì nel 149 ac. Cultore e conoscitore di medicina, egli si scagliò contro coloro che esercitavano quest’arte, ma non intendendo inveire contro l’arte stessa. Catone proibì a suo figlio Marco di contrarre amicizia con i medici perchè “greci”, e perchè capaci, secondo lui, di avvelenare i Romani.
Nella storia della medicina, Catone si distingue in quell’epoca di quasi assoluto silenzio, per la compilazione di due opere: il “
De Medicina Domestica” e il “De Re Rustica”. Catone non va considerato come il caposcuola di una medicina tutta semplice e naturale, ma piuttosto come il prosecutore di antiche usanze italiche, etrusche e sabine. Catone ha lasciato nel suo libro “De Re Rustica” le nozioni fondamentali di questa medicina empirica e, come dice lui stesso, domestica.
Nella farmacologia catoniana il cavolo (brassica) viene considerato alla stregua di una panacea atta a guarire qualsiasi malattia, e il vino una sorta di eccipiente di altri medicamenti in esso infusi.
Contro l’elmintiasi Catone consiglia il “malum punicum” (melograno) che avrebbero avuto valore anche contro la dispepsia e la stranguria. Contro le ulcere e le piaghe di varia natura egli consiglia la menta, la ruta e il coriandolo. Catone loda l’assenzio, il veratro nero, il lauro, l’erba sabina, le foglie di mirto e di noce, mentre ritiene purganti pericolosi l’elleboro e la scamonea.
Tra i “vini medicinali” deve essere ricordato quello preparato con ginepro, atto a curare la sciatica, il vino preparato con il mirto, quale purgante e quale calmante dei “dolori laterali”.
Interessanti pure le istruzioni per comporre apparecchi chirurgici atti a ridurre le lussazioni e contenere ed immobilizzare le fratture, costruiti con canne verdi lunghe cinque palmi. Nella “medicina catoniana” delle cantilene particolari dovevano essere ripetute mentre si eseguivano i movimenti adatti per ridurre le lussazioni.

Le Leggi a sfondo igienico sanitario

All’epoca dei re furono emanate le “legies regiae”.
Dopo tre secoli circa dalla fondazione della città, si impongono le cosiddette leggi delle XII tavole, definite da 
Cicerone totam civilem sententiam”. Esse furono emanate dai Decemviri, collegio la cui origine risale al 462 ac, per frenare il conflitto tra patrizi e plebei.
In epoca repubblicana, la legge era emanata, direttamente o indirettamente dal popolo: si dicevano leggi “rogatae” o “latae”, se votate dai comizi, oppure “datae” se emanate dal senato o da un magistrato, dietro autorizzazione del popolo. Le leggi prendevano il nome dal magistrato che le proponeva.
In un periodo in cui la medicina ufficiale sembra tacere del tutto, anche lo studio delle leggi può acquistare un certo valore, dal punto di vista sanitario.
Puccinotti interpreta la legislazione romana alla stregua di un manuale di igiene. Riprendendo il motto citato da Puccinotti, “Salus populi suprema lex”, il Pazzini contesta l’interpretazione del tutto sanitaria e igienista data al termine “salus” dal Puccinotti.
Per il Pazzini, dunque, non sono igieniche le leggi che vietano il celibato, ma lo sono quelle che istituivano l’ufficio degli edili cereali che avevano il compito di sovrintendere alla salubrità e alla sana conservazione degli alimenti così come quelle di Sempronio Gracco che imponevano ai censori la sorveglianza sul ripulimento e sulla condotta delle acque e dell’alveo del Tevere. A queste leggi possono aggiungersi quelle riguardanti la polizia mortuaria, di origine probabilmente pre-romana.
Di soggetto medico-legale erano quelle leggi delle XII tavole che determinavano la gestazione in 10 mesi (“
in decem mensibus homines gigni”) o quelle che pongono sotto tutela i pazzi (“furiosus sit, agnatorum gentiliumque in eo pecuniave eius potestas esto“) o quelle contro i fattucchieri, o quelle funerarie.

Medicina ieratica

la medicina nel tempio costituisce una pagina assai interessante: dall’intimità accessibile dell’abaton essa si spostò verso forme cliniche e terapeutiche.
Un culto essenzialmente romano o anche preromano fu quello della dea Febbre, nella quale i quiriti personificarono la malaria.
Un’altra divinità riguardante la malattia, e particolarmente l’insalubrità, era la dea Mephytis, che aveva un tempio nell’Esquilino. Ogni singolo fatto fisiologico (parti, mestruazione, generazione, ecc.) aveva la sua particolare deità, spesso con relativo tempio.
La dea Carna era protettrice delle funzioni vitali. A Strinia, o Strenua, era dedicato un bosco sacro.
Salus divenne una divinità importantissima della religione ufficiale con il nome di “Salus publica Populi Romani”. A lei gli àuguri e i consoli indirizzavano le preghiere per il benessere, la sicurezza e la prosperità della repubblica.
Il dio Matus Tutunnus, identificabile con il Priapo greco, presiedeva al concepimento e la fecondazione.
Vi erano inoltre Uterina, Cunina, Mena, Rumina e altre, che, come si intende anche dal nome, presiedevano ad atti e fatti fisiologici.
Con l’introduzione dell’ellenismo in Roma sorse, accanto a questi culti, quello maggiore di Esculapio, che ben presto li sorpassò e riassunse tutti. A questa divinità vennero identificati templi, il primo dei quali è stato ritenuto quello dell’isola Tiberina di Roma. Secondo il racconto riportato da 
Tito Livio tra la fine del X e l’inizio dell’XI libro delle sue “Storie”, nel 293 ac, il dio giunse in forma di serpente, proveniente su una nave da Epidauro, dove si era recata una delegazione inviata dal Senato, ed andò a nascondersi nell’isola Tiberina, indicando il luogo dove edificare il tempio.
Solitamente, una caratteristica necessaria per un tempio di carattere medico era la presenza di un bosco sacro dove il dio faceva sentire la sue voce profetica.


Periodo di transizione

Questo periodo è caratterizzato dall’infiltrazione della cultura greca che, diffondendosi nella società prettamente romana, condusse al raffinamento dei costumi e della cultura ma anche all’affievolirsi di quella rigidezza, che era stata caratteristica prettamente romana. Non furono sufficienti le aspre recriminazioni di Catone il Censore ad arginare l’infiltrazione ellenistica.
I medici greci cominciarono ad affluire in Roma e furono all’inizio mestieranti che avvilirono sempre più l’arte, anziché nobilitarla. Qualunque greco che veniva a Roma capace, bene o male di cavar sangue o strappare denti o persino tagliare calli, meritò il nome di medico, come risulta da 
Galeno (De optima sec.), da Cicerone (“Oratio in Pisonem“, cap. 34) ed altri.

ARCAGATO

Fu intorno al 219 ac, epoca nel quale Catone scriveva il suo “De Re Rustica” che ebbe la prima venuta in Roma di un periodeuta greco di nome Arcagato, nativo del Peloponneso. Il suo arrivo viene narrato da Plinio sulla testimonianza dello storico Cassio Emina. Egli fu accolto inizialmente in maniera trionfale e salutato con il nome di “vulnerarius”, cioè chirurgo. Gli fu anche comperata a spese pubbliche una “taberna”, cioè un locale dove esercitare la sua arte. Ma Arcagato corrispose così poco le attese pubbliche, riferisce Plinio, che secondo alcuni venne linciato dopo poco tempo dai Romani, e secondo altri venne semplicemente espulso con l’appellativo di “carnifex”. Il Pazzini tende a non credere a questa storia narrata dal naturalista romano dato il suo “carattere bilioso e acre”. Del resto Celso lodò Arcagato nel suo libro “De Medicina”, affermando che ancora nei suoi tempi si continuava a prescrivere il “cerotto di Arcagato”, composto di minio, rame bruciato, cerussa, trementina e litargirio.
Dunque, con l’arrivo dei primi periodeuti iniziò, probabilmente, in Roma l’attività dei medici e sorse la medicina demotica.
Questo mestiere si esercitava nelle “tabernae”. E fu così che, insieme alla “taberna argentaria”, la “taberna vinaria”, la “taberna diversoria”, si aprì in Roma la “
taberna medicinae”, chiamata anche “medicatrina”, così come c’erano le “tonsitrinae” per indicare le barberie.
Nelle “tabernae medicorum”, secondo le testimonianze di autori come Varrone, si confezionavano i medicamenti e vi si vendevano, come nelle moderne farmacie; si passava del tempo a chiacchierare e spettegolare come nelle vecchie farmacie; vi si curavano gli ammalati (vi si salassava e si conciavano le ossa, tralatro) e forse si tenevano delle lezioni.

Condizioni dei medici 

Le condizioni dei medici, in questa epoca di transizione, erano socialmente tra le peggiori, dato lo scarsissimo valore dato a questi mestieranti. Molti medici erano schiavi o liberti, tali divenuti per qualche benemerenza o per riscatto proprio. Essi valevano “dodici solidi”, un prezzo comunque non del tutto disprezzabile, dal momento che il “solidus aureus” costituiva la moneta stabile dell’economia romana.
Il massimo grado di considerazione di uno schiavo medico (“servus medicus”) fu costituito probabilmente da 
Antonio Musa, che guarì l’imperatore Augusto secondo i dettami della scuola metodica, così che il Senato gli dedicò una statua, sul Palatino, con la lingua d’oro.
Dunque, successive “ondate” di medici a Roma apparvero come più degni di considerazione. I medici stranieri incominciarono ad essere accolti con maggiore benevolenza ed onori: fu infatti concessa la cittadinanza romana, senza la quale nessuno poteva vivere decorosamente a Roma. Nel 46 ac, infatti, Giulio Cesare concesse per la prima volta ai medici tale ambito onore. Che molti medici fossero stranieri anche da un passo di Svetonio sulla vita di Ottaviano Augusto: allorchè costui cacciò i forestieri da Roma risparmiò i medici e i precettori. Negli ultimi anni della storia repubblicana di Roma venivano concessi onori a medici stranieri proprio per invogliarli ad esercitare nell’Urbe.
Cicerone, nel suo “
De divinatione” pone la medicina in un rango di vera scienza: riconoscendo che al letto dell’infermo bisogna chiamare un medico, e non il ciarlatano o il vate, egli mostra di distinguere la medicina dalla ciarlataneria e la mistificazione (Cicerone, “Tuscolane”, 1. I).
Ora la medicina in Roma è pronta ad uscire dalle tabernae per entrare nella fase delle scuole.


Periodo delle scuole

Intitoliamo alle scuole tutto il periodo della medicina in Roma coincidente con la vita dell’impero, poiché esser costituiscono l’elemento che maggiormente si impose.
Questa fase viene fatta coincidere con la venuta in Roma di 
Asclepiade, nativo di Prusa, in Bitinia.
È questo il periodo scolastico caratterizzato dal sorgere ed affermarsi di scuole ben definite e determinate, fondate su principi di fisiopatologia, spesso antitetici, e che degeneravano, il più delle volte, in sètte.
Il pensiero medico nella Roma imperiale è divisibile in tre fasi:
1) la fase pre-galenica,
2) quella galenica e
3) quella post-galenica.
La prima, caratterizzata da una pletora di scuole, di tendenze e di rivalità si estende quasi alla seconda metà del secondo secolo dc. Alle tre scuole fondamentali – la metodica, la pneumatica e l’eclettica – si aggiunsero quella astrologica di 
Crinate di Marsiglia e quella empirioco-scettica, cui Wellmann asseriva appartenere Celso, mentre Quintiliano asserisce che costui apparteneva alla scuola dei Sesti.
Nella seconda fase, si comincia a delineare una unificazione del pensiero, nella forma dettata da Galeno.
Nella terza si nota il principio di quello “isterilimento” che condurrà all’abbassamento di tono delle cosiddette epoche medievali.


Tratto da:
  • Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, Minerva Medica, pagg. 212-233

 

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