Le Sette Mediche in Roma (prima di Galeno)

 Medicina pregalenica


medicina in Roma

Intitoliamo alle scuole tutto il periodo della medicina in Roma coincidente con la vita dell’impero, poiché esser costituiscono l’elemento che maggiormente si impose.
Questa fase viene fatta coincidere con la venuta in Roma di Asclepiade, nativo di Prusa, in Bitinia.
È questo il periodo scolastico caratterizzato dal sorgere ed affermarsi di scuole ben definite e determinate, fondate su principi di fisiopatologia, spesso antitetici, e che degeneravano, il più delle volte, in sette.
Il pensiero medico nella Roma imperiale è divisibile in tre fasi:
1) la fase pre-galenica,
2) quella galenica e
3) quella post-galenica. 

La prima, caratterizzata da una pletora di scuole, di tendenze e di rivalità si estende quasi alla seconda metà del secondo secolo dc. Alle tre scuole fondamentali – la metodica, la pneumatica e l’eclettica – si aggiunsero quella astrologica di Crinate di Marsiglia e quella empirico-scettica, cui Wellmann asseriva appartenere Celso, mentre Quintiliano asserisce che costui apparteneva alla scuola dei Sesti.
Nella seconda fase, si comincia a delineare una unificazione del pensiero, nella forma dettata da Galeno.
Nella terza si nota il principio di quello “isterilimento” che condurrà all’abbassamento di tono delle cosiddette epoche medievali. 
[1] 


1) Prima Fase: Medicina Pre-Galenica 

La fase pre-galenica comprende quasi due secoli di vita, che sono racchiusi dalla venuta in Roma di Asclepiade di Bitinia e la fioritura di Galeno.
In questo periodo si ha l’istituzione e lo sviluppo delle scuole, il diffondersi del cosiddetto enciclopedismo, che ebbe tra i migliori esponenti Celso e Plinio, nonché la prosecuzione degli studi anatomici già visti in auge nell’epoca alessandrina. 
[2] 


1a) La Scuola Metodica 

Il dottrinario medico che ebbe vita in epoca romana fu tra i più interessanti, a parere del Pazzini, per il significato che assunse nell’evoluzione del pensiero medico.
Per la prima volta, infatti, si delinea una netta reazione anti-ippocratica: contro l’umoralismo, infatti, si afferma, un’altra dottrina che, pur non essendo all’altezza dell’universalità del pensiero ippocratico, mostra una sua parte di vero intuito, ancora non dimostrabile, ma che prenderà spazio con il maturare delle scienze mediche: il solidismo. Il solidismo, facendo vergere l’attenzione del medico sulla costituzione della materia, fa pensare che anche in essa, oltre che in un’alterata crasi ematica, possa consistere la causa della malattia.
Già delineata in epoca alessandrina, l’interpretazione solidistica della malattia e la circoscrizione della sua attività al ristretto campo del tessuto, riprende vita nella concezione di Asclepiade di Bitinia, vissuto ed emerso in Roma nel I secolo ac, ispiratore della scuola metodica che riconosce in Temisone il proprio fondatore.
Asclepiade di Bitinia rappresenta il primo esponente vero e proprio della medicina in Roma, di importazione ellenistica. A lui si riconnette il principio, nuovo nella medicina, dell’atomismo, l’applicazione alle leggi biologiche e fisiopatologiche di una dottrina filosofica fino allora rimasta nel campo delle speculazioni astratte.
Amico dei principali personaggi della città, quali Marco Antonio, Crasso, Cicerone ed altri, la sua fama fu veramente quella di un grande scienziato e maestro.
Fu anche fondatore di una scuola, che non fu quella dei Metodici fondata da Temisone di Laodicea, sotto la sua ispirazione, ma che fu parimenti famosa ai suoi tempi.
L’opera di Asclepiade ci è pervenuta frazionaria, attraverso citazioni e riferimenti riportati da vari autori. È noto che scrisse un’opera intitolata “Περι Στοκειον
” (Sugli Elementi), oggi perduta, nella quale pose i frammenti d quella dottrina che da lui doveva prendere origine.
In quell’epoca, l’epicureismo teneva campo nella mentalità della classe culturale romana. Nella sua parte fisica, l’epicureismo si basava sulla dottrina atomistica dei più celebri Democrito e Leucippo e del meno noto Eracleide da Ponto (340 ac).
Su questa concezione Asclepiade fondò la propria dottrina medica, dottrina che formò la base della scuola metodica.
Dunque, secondo Asclepiade, la materia è formata sia da atomi di diversa grandezza che, unendosi, lasciano tra loro dei pori attraverso i quali si muovono gli altri atomi, sia dal movimento, regolare o no, degli atomi dentro i pori. All’interno di questo assunto solidistico si colloca il concetto di proporzione: quando la proporzione tra atomi è perfetta e l movimento tra loro si compie in modo regolare, si ha salute; al contrario, si ha malattia.
Parimenti, partendo da questo concetto, Asclepiade giudicava che il principio della natura guaritrice fosse errato, dal momento che la natura nulla poteva fare per restringere o allargare i pori che erano causa della malattia. Per le stesse ragioni egli negò qualunque valore alla teoria dei giorni critici.
In tal modo egli si schierò nettamente contrario ad Ippocrate, che chiamava meditatore della morte, appunto perchè aspettava dalla natura la guarigione, cosa che secondo lui non poteva avvenire.
Il giudizio degli antichi su questo medico è discorde. Seneca affermò che tre sono le scuole mediche più insigni: quella di Ippocrate, quella di Asclepiade e quella di Temisone, che fu una diretta emanazione della seconda.
Asclepiade, sostiene il Pazzini, è l’espressione precoce della aspirazione scientifica a ritrovare una legge meccanica, unica, che spieghi i fenomeni di salute e di malattia; è l’aspirazione di colui che cerca di rendersi conto dei fatti in una maniera che gli permetta di staccarsi dal cieco empirismo.
Nel suo metodo si dava molta importanza all’osservazione dei fatti. Egli diede grande importanza alla “terapia fisica”: infatti, se la malattia era da considerarsi un’alterazione della costituzione della sostanza, fisici dovevano essere anche i mezzi per ricondurre in essa lo stato di sanità. Egli “elevò al rango di terapia” l’idroterapia, i massaggi, le unzioni, la ginnastica, le passeggiate, e perfino il dondolamento nelle amache. Tutto ciò, sebbene noto anche da prima, entrò a far parte di un vero e proprio dottrinario che ne giustificava e disciplinava l’attuazione. 
[3] 

Dal pensiero medico di Asclepiade di Bitinia si forma la scuola metodica di Temisone di Laodicea (50 ac).
Se Asclepiade di Bitinia può essere considerato l’ispiratore della scuola metodica per averne posto le basi dottrinarie, Temisone di Laodicea dette un “metodo” a quelle idee che, per l’attuazione pratica erano forse troppo vaghe e inattuabili: di qui il nome di metodica a quella scuola.
Temisone, nato a Laodicea, fu allievo di Asclepiade. Alla morte del maestro egli volle fondare una scuola propria che fosse continuazione del suo pensiero e avesse nello stesso tempo maggiore impronta medica.
La Scuola dei Metodici prese questo nome, secondo Galeno, dal fatto che il suo fondatore si pose il compito di rettificare le regole fondamentali di Asclepiade, di determinare con migliore precisione il suo metodo e di renderlo assai più semplice e alla portata di qualsiasi intelligenza.
L’interpretazione della malattia, secondo questa dottrina, si basa sulla supposizione, già emessa da Asclepiade, che la malattia e la salute consistessero nello stato di strettezza o larghezza dei pori di cui è composta la sostanza.
Si distinse così uno “status laxus” ed uno “status strictus”. Praticamente, lo status strictus si manifestava con rossori, calori, congestioni, sete ardente, stato eretistico [eccessiva eccitabilità nervosa], ipertonia; al contrario, lo status laxus era caratterizzato da pallore, polso debole, tessuti flaccidi, senso generale di astenia e rilassatezza.
La distinzione di questi due “stati morbosi” è riportata da Galeno, che ne tratta nel libro sulle varie sette. Lo stesso Galeno, nell’opera “De methodo medendi” riferisce che il medico 
Mnasea, metodico di un certo nome per aver composto taluni medicinali, affermò l’esistenza di un terzo stato della materia malata che chiamò “status mixtus” specialmente nel letargo, nella epilessia, nel catarro, e nelle paralisi, contribuendo a muovere l’uniformità delle patologie. [4]

Il De Renzi nella sua “Storia della Medicina Italiana” (Vol I, Sezione II, cap. II, del 1845) ricorda, tra gli immediati successori di Asclepiade, Giulio Basso, farmacopolo latino che scrisse “grecamente”, di cui sappiamo da Celio che prescriveva gli errini ed i cristei nell’idrofobia; un altro farmacopolo, Sestio Nero, che al pari di Basso scrisse in greco; Petronio Diodoto, che scrisse, secondo Plinio, un libro sulle piante medicinali; Nicerato, citato da Celio Aureliano per aver trattato “sulla Catalessia”; Metrodoro, che disegnando delle piante, segnava in esse le pretese qualità terapeutiche senza dare alcuna descrizione; un certo Cassio, il quale era ritenuto da Celso come il più ingegnoso medico dei suoi tempi, del quale rimangono 84 “problemi medici”, molti dei quali sono scritti secondo le dottrine di Asclepiade, e che spiegava l’empiplegia del lato opposto alla parte lesa del cervello, per l’incrociamento dei nervi, ed altri ancora. 

La semplificazione indotta dalla scuola metodica ebbe un maggiore avvilimento con l’avvento al magisterio di Tessalo di Tralles, avvento auto-decretato, ma non per questo meno tristemente, per il Pazzini, influente nel campo medico dell’epoca romana.
Con la sua dottrina della “metasincrisi” mirante al rinnovamento di tutta la compagine organica, Tessalo, creatore di un metodo che avrebbe dovuto rendere medico chiunque in soli sei mesi, ridusse la medicina ad un volgare mestiere ed il dottrinario solo ad una beffa; utile a far guadagnare coloro che, esercitandola, speculavano sulla credulità e la dabbenaggine del prossimo.
Giudicato da qualcuno, come per esempio, lo Sprengel, il vero fondatore della scuola metodica, Tessalo di Tralles, secondo il Pazzini, deve essere invece considerato come colui che, avendo portato questa setta al suo peggiore e più basso avvilimento, “tanto prostituì la medicina da renderla scienza vana di ciarlatani e imbroglioni”. 
[5]
Venuto a Roma, vi dimorò dall’epoca dell’impero di Nerone a quello di Traiano. Si dedicò, ribadisce il Pazzini, ad un tratto alla medicina pur non conoscendone affatto nemmeno i primi elementi. Egli dichiarò che a nulla valeva la medicina fino ad allora esercita, e che erano false tutte le scoperte. Nominatosi da sé stesso “jatronico”, e cioè vincitore dei medici, Tessalo immaginò una dottrina che egli chiamò “metasincrisi”, vale a dire rigeneratrice del corpo, la quale, in effetti, altro non era che un’ulteriore semplificazione della dottrina di Temisone.
Egli aprì una scuola nella quale accettava fabbri, mugnai, tessitori, ecc., promettendo loro di istruirli completamente nella medicina in soli sei mesi e di renderli capaci di esercitarli liberamente.
La sua dottrina consisteva nell’applicazione più banale dei principi metodici; trascurando qualsiasi altra nozione riguardante la patologia e la clinica, cercava solo di stabilire lo stato stretto o lasso del paziente, applicando in tal senso i medicamenti senza averne alcuna conoscenza, come spesso gli rinfacciava Galeno.
In effetti, però, egli si mostrava desideroso di una sola cosa: di non disgustare i malati e di fare tutto quello che essi gli chiedevano.
Tessalo ebbe numerosi allievi, di alcuni dei quali è giunto fino a noi il nome tramite Galeno e Celio Aureliano: Menemaco, Olimpico, Apollonide di Cipro e Mnasea, colui che lasciò la sua definizione di status mixtus. 
[6]

Afferma il Puccinotti nella sua “Storia della Medicina” del metà ottocento:

“Da Antonio Musa cominciarono ai medici in Roma le alte considerazioni e i larghi stipendi, e i titoli ambiti di medici degli imperatori. E negli anni tra [gli imperatori] Augusto e Claudio altri Asclepiadisti si contano più o meno distinti con cotesti onori e ricompense: Tullio Basso, Calpetano, Arunzio, Albuzio, Rubrio, Q. Stertinio, Vezio Valenle, Eudemo Caricle, Antidio, Nicone d’Agrigento, Sesto Nigro, Petronio, Diodoto, Nicerato, Artorio, Areo, Scribonio Largo, e Tessalo di Tralles. Del questo ultimo, che dicono medico di Nerone, non v’è Storia della Medicina che non ne ricordi la ignoranza e le improntitudini.” 


Alla scuola metodica non mancarono, tuttavia, ottimi esponenti, taluni dei quali sono, anzi da ritenere tra i migliori medici dell’epoca romana.
Tra questi è da ricordare, in primo luogo, 
Sorano d’Efeso. È questi certamente il rappresentante più illustre della scuola metodica, colui che, con la serietà dei suoi intendimenti scientifici, riabilitò la setta che andava decadendo sempre più in basso.
Sorano nacque ad Efeso, da Menandro e Febea; studiò in Alessandria e, intorno all’anno 100 dc, venne a Roma dove rimase durante l’impero di Traiano e Adriano.
Sorano era un metodico, ma avendo studiato in Alessandria, prese molte delle sue idee dalla scuola empirica, che colà, a quel tempo dominava. Quindi, in realtà, egli non fu un metodico puro.
Egli si occupò di patologia e clinica, di terapia e di igiene, di dietetica, di fratture, lussazioni, ecc.
Sorano confuta, secondo i suoi principi di metodico, le opinioni degli antichi, non sottoponendoli a scherno, come invece fece Tessalo di Tralles, ma vagliandoli ad una disamina che a lui sembrava giusta.
Malgrado fosse metodico, egli spinse alla massima accuratezza l’esame del paziente, non limitandolo alla semplice constatazione dello status strictus o laxus.
Nella semeiotica sembra che egli abbia eseguito la palpazione e persino la percussione (G. Medioni) giungendo a finezze diagnostiche veramente sorprendenti, specie riguardo a diagnosi differenziali.
Gli argomenti sui quali maggiormente si è formato sono la lebbra, la pleurite, per le quali prescriveva il salasso, la dissenteria “biliosa”, la natura delle febbri, ecc.
In terapia disapprovava l’uso dei purganti poiché, egli diceva, facevano evacuare gli umori cattivi, ma insieme, anche quelli buoni. E questo, come si può intendere, non è linguaggio da metodico ma da umoralista.
La sua opera principale, tuttavia, fu quella intitolata “
Delle Malattie delle Donne”. Sorano è oggi noto particolarmente per la sua qualità di ostetrico.
Le sue conoscenze anatomiche, malgrado l’asserzione già da lui fatta (come metodico) dell’inutilità dell’anatomia, non sono certamente minori di quelle degli anatomisti veri e propri, quantunque al campo genitale.
Egli da una buona descrizione dell’utero (ovviamente limitatamente ai tempi) ed asserisce che, oltre alle cognizioni desunte dall’esame dell’organo negli animali, ebbe occasione di fare osservazioni anche di anatomia umana, anche se in seguito negò tale affermazione.
Egli descrive quest’organo come una grande ventosa, nega l’esistenza dei cotiledoni, già ammessi da altri e chiama le ovaie con il nome di testicoli.
Conosce la correlazione tra quest’organo e la mammella, la differenza di consistenza tre il collo delle nullipare e quelle che hanno partorito.
Interessante la questione dell’imene secondo Sorano, il quale riporta la supposizione, fatta da qualcuno, circa l’esistenza di una membrana che chiuderebbe la vagina. Egli ne nega la presenza perchè non l’ha trovata e perchè uno stiletto può arrivare fino al fondo della vagina. Secondo altri egli l’avrebbe descritto.
Nel suo libro egli ammette le pratiche antifecondative consistenti nella chiusura dell’utero con lana e sostanze grasse, ma proibisce l’aborto.
Non mancano nozioni di puericultura e di pediatria, che per la letteratura del genere, in quell’epoca, possono essere ritenute abbondanti. 
[7] 

Celio Aureliano è l’ultimo, in ordine cronologico, dei metodici, e forse, il più completo per l’esposizione del dottrinario.
Non è nota l’epoca in cui egli visse, variando questa, a seconda degli autori, dal sec. II al sec. IV dc. Egli nacque a Sicca, città della Numidia.
Aureliano fu autore di un’opera che rimase celebre, specialmente nel medioevo, intitolata “
Delle malattie acute e croniche”; ma per meglio dire trattasi di due opere. Una, dedicata alle malattie acute, è divisa in tre libri; l’altra dedicata alle croniche, è divisa in cinque libri.
In essa egli descrive la sintomatologia dei vari morbi, sviluppando in tal modo la semeiotica e la diagnostica. Quest’opera è molto importante anche perchè, in essa, l’autore offre notizie di parecchi altri metodici e del loro dottrinario. 
[8] 

Altri metodici furono:
Antonio Musa famoso per aver “guarito” Augusto.
Eudemo, scolaro di Temisone, che studiò in special modo l’idrofobia. Di questa malattia egli mise in evidenza, secondo quanto asserisce Celio Aureliano nel suo trattato sule malattie acute, il sintomo dello spasmo laringeo alla vista dell’acqua o di qualsiasi altro liquido, e ne propose come cura, il salasso, l’elleboro e le ventose.
Megete di Sidone fu un altro allievo di Temisone, e fu chirurgo.
Filomeno, vissuto all’incirca nello stesso periodo di Temisone, si occupò di dissenteria. Egli, a riguardo, ebbe osservazione nel proibire oppio e astringenti che, impedendo il deflusso del materiale putrescente, facilmente potevano far insorgere intossicazioni con gravi fenomeni morbosi. Si occupò anche di tetano per il quale consigliava l’aria fetida, della stranguria, delle ulcere della bocca, ecc.
Giuliano, discepolo di Apollonide di Cipro, fu compagno di Galeno, di cui divenne nemico, per aver trascurato la patologia umorale. 


1b) La Scuola Pneumatica 

Contro la riforma metodica, contraria al pensiero ippocratico, sorse una specie di controriforma, rappresentata dalla cosiddetta scuola pneumatica.
Anche questa venne fonda in Roma, verso la metà del I secolo dc, e sembra che ne sia stato fondatore 
Ateneo di Attaleia, che si ispirò alla dottrina filosofica degli stoici.
La scuola pneumatica altro non è che la prosecuzione della scuola dogmatica, e perciò è di origine ippocratica. Il nome è dovuto al fatto che il pneuma veniva collocato come base dell’economia vitale dell’organismo.
Essa fonde l’umoralismo con il pneumatismo e tende a ricondurre il concetto di malattia, nonché l’interpretazione dei fenomeni morbosi, a quei principi del giusto equilibrio degli umori regolati dal pneuma.
Attaneo di Attaleia viene considerato come il fondatore del pneumatismo. Nato in Attaleia (o Atalia, nella Cilicia), venne a Roma sotto il regno di Claudio tra il 41 ed il 54 dc. Fu medico assai fecondo di opere: Galeno assicura che egli scrisse oltre trenta libri. Sfortunatamente, di questa vasta produzione ci è pervenuto solo qualche frammento e qualche citazione. Convinto della verità della dottrina pneumatica, e quindi fondamentalmente ippocratico, istituì la sua scuola intorno al 50 dc, attirando a sé un gran numero di discepoli.
Alla maniera degli ippocratici fu anche filosofo e umoralista; convinto dell’importanza umorale sul temperamento e la costituzione, dettò precetti utili per cercare di modificarli per mezzo della dietetica, diventando un cultore convinto di questa branca della medicina.
Fu studioso della semeiotica, e principalmente del polso, che considerò quale indice dello stato in cui si trovava il pneuma nelle arterie.
Si occupò anche della igiene della abitazioni, della depurazione dell’acqua. Nell’interpretazione di alcuni fenomeni fisio-patologici fu seguace del pensiero aristotelico, così anche riguardo alla dottrina della generazione spontanea. 
[9] 

I principali esponenti tra i discepoli di questa scuola furono Apollonio di PergamoEliodoro ed Agatino di Sparta, che viene ritenuto generalmente come fondatore della scuola eclettica. [10] 


1c) La Scuola Eclettica 

Il primo ideatore di questa scuola fu, secondo Galeno, Agatino di Sparta [11], cui fu dato il soprannome di “Episintetico” in quanto cercò di prendere il meglio delle altre scuole. Agatino si separò dalla scuola pneumatica, per fondare la nuova, intorno al 90 dc.
È bene notare che questa tendenza all’eclettismo si andava diffondendo nel campo culturale anche al di fuori della medicina e particolarmente nella filosofia. 
Cicerone, ad esempio fu uno degli eclettici più noti.
L’eclettismo risulta dalla fusione del “solidismo” di Asclepiade con l’umoralismo ippocratico. Il Pazzini ricorda che anche A. Cornelio Celso fu definito eclettico dal De Renzi e che la forma più alta di eclettismo scientifico fu raggiunta proprio da Galeno.
Agatino, allievo della scuola pneumatica, non disprezzò i concetti della scuola metodica ed empirica, delle quali adottò quei principi che a lui parvero migliori. In tal modo si formò un dottrinario che, prendendo il buono dovunque si trovasse, ebbe nettamente la prevalenza sulle altre scuole che, troppo assolutiste, consideravano un lato del problema fisiopatologico.
Come pneumatico egli pose a base dei fenomeni biologici il concetto umorale. Come metodico, ebbe molta fiducia nella terapia fisica e nella idroterapia, della quale però decantò i bagni freddi e condannò quelli caldi.
Si occupò molto anche di tossicologia, istituendo ricerche sperimentali sui cani. Si occupò anche lui del polso.
Allievo di Agatino fu 
Archigene di Apamea [12]. Sue notizie e riferimenti alla sua opera si trovano presso il bizantino Aezio di Amida e in Galeno.
Archigene nacque ad Apamea in Siria, da un medico, Filippo, celebre farmacologo. Venne a Roma sotto l’impero di Traiano. Medico e chirurgo audace, Archigene si guadagnò la stima dei contemporanei e posteri. Alessandro di Tralles lo chiama addirittura “uomo divino”.
Anche Archigene si dedicò allo studio del polso, di cui riferì otto specie, ciascuna delle quali comprendeva altre varietà. Si occupò della dottrina delle febbri, delle sedi della malattie dedotta dalle varie modificazioni del dolore che egli si sforzò di definire con sottigliezze dialettiche. Nella dottrina delle febbri fu piuttosto dialettico che medico. E comunque, egli descrisse assai bene alcune malattie, tra cui la difterite, la lebbra e l’ascesso epatico.
In terapia fu autore di molte composizioni tra le quali la più celebre fu la “Hiera”. Fu anch’egli seguace della terapia fisica e dell’idroterapia. Usò il salasso fino al deliquio, cavando sangue dalla parte opposta di quella malata.
Come chirurgo usò molti cauteri, escogitò una nuova tecnica per l’amputazione, operò gli scirri delle mammelle.
Areteo di Cappadocia [13], secondo alcuni storici (Sprengel) sarebbe da includere tra i pneumatici, secondo altri più moderni (Medioni) va considerato come figura sé.
Ad ogni modo Areteo è una delle figure di primo piano della medicina in epoca romana. Nato in Cappadocia, visse tra il primo e il secondo secolo dc. Seguì Ippocrate nel modo migliore, non occupandosi di altri autori: infatti scarsissime sono le citazioni di altri medici.
Come ippocratico, Areteo è fondamentalmente pneumatico, ma si discosta da questa dottrina in più luoghi, come per esempio nella concezione generale della malattia che è, per lui, una rottura di quell’equilibrio di solidi, di liquidi e di spiriti che costituisce allo stato della salute. Da questo concetto generale proviene la divisione della malattie a seconda che dipendano da alterazioni degli umori o del pneuma che può essere alterato nello stesso modo degli umori, diventando denso, torbido, untuoso, secco, sottile, freddo, immobile, ecc. Questo pneuma, che ha sede nel cuore, secondo il concetto ippocratico, viene diffuso attraverso le arterie.
Curò con attenzione l’anatomia, poiché alla descrizione delle malattie fece sempre precedere quelle della parte malata. Alcune di queste descrizioni sono accuratissime.
Il Pazzini (riprendendo il Puccinotti) cita quella riguardante l’intestino:

Le superiori intestina, sino al cieco sono tenui e biliose; le inferiori, cioè dal cieco fino all’origine dell’intestino retto, sono crasse e carnose. In tutte possono formarsi delle ulcere e la dissenteria consiste in una specie di codeste ulcere, la quale si manifesta, pertanto in vari stati morbosi. Alcune ulcere rodono soltanto la superficie delle intestina, inducendovi semplice escoriazione, e queste sono innocue, … Se ne danno di altre ancora più profonde e non pertanto sono miti anch’esse. Ma quelle profonde, non fisse in un solo punto, depascenti, glandulose, serpeggianti e riducenti sfacelo, sono mortali. Nelle corrosioni di codeste ulceri anche piccole vene sono comprese, ed in tali lo stillicidio di sangue è più copioso. …”. 

Interessanti sono anche la descrizione della pleurite, delle paralisi cerebrali che vengono riconosciute crociate rispetto alle lesioni del cervello a differenza delle paralisi spinali, della tisi, del tetano, della sincope, dell’arresto del cuore, ecc.
Anche in terapia, Areteo segue Ippocrate dando molto valore alla dietetica, alla climatica ed alla terapia fisica: consiglia il salasso della parte opposta, i clisteri, le sanguisughe, le ventose, le docce, ecc.
Areteo ha lasciato un libro dal titolo “
Malattie acute e croniche” ed un altro di “Terapia”. Entrambe le opere vennero scritte in greco. Vennero pubblicate in versione latina, a Venezia nel 1552 ed in italiano nel 1838 a cura di F. Puccinotti.
Rufo di Efeso [14] fu noto, forse, più come anatomista che come medico vero e proprio. La data in cui visse è controversa. Nato ad Efeso, fiorì sotto l’impero di Traiano verso la fine del I secolo dc. Visse a lungo in Egitto e trattò di malattie di reni, di vescica e della prostata. Descrisse l’operazione della pietra con il metodo celsiano. Attuò la ligatura e la torsione dei vasi feriti, ecc.
Egli fu anche uno dei primi descrittori della peste bubbonica e della lebbra. Descrisse bene anche i processi erisipelatosi.
Nello scritto “
De interrogatorio” insegna la maniera di interrogare il paziente con attenzione. Scrisse pure un libro “sulla gotta”.
In farmacologia fu autore di alcuni medicamenti composti tra i quali una Hiera a base di coloquintide.
Altri eclettici 
[15] furono un tale Erodoto che si occupò molto di idroterapia; Filippo di Cesarea che scrisse, secondo Celio Aureliano, un’opera “sulla catalessi” ed una “sulla tabe”, ossia sulle affezioni tubercolari; Cassio Jatrosofista, autore di una piccola opera suo problemi fisico-medici, intitolata “Naturales et Medicinales Quaestiones”; e Magno di Efeso, un dialettico vissuto a Roma nei tempi di Galeno.


L’enciclopedismo [16] 

Questo termine, comparso nel V secolo dc, dall’opera di Marziano Cappella, che riunì in un solo libro le sette arti liberali di cui si componeva, allora, tutto lo scibile.
Nell’epoca romana in questione abbiamo esempi di opere di “erudizione culturale” che costituiscono una raccolta di argomenti provenienti da varie fonti, in cui l’autore acquisisce e digerisce per il lettore testi ritrovati da lui personalmente o anche grazie all’aiuto di collaboratori, detti “servi a bibliotecis”, i quali scovano per conto altrui materiale didattico dalle biblioteche.
A riguardo, interessante è la descrizione di 
Plinio il Giovane che rappresenta lo zio, Plinio il Vecchio, l’autore della “Storia Naturale”, al centro di un gruppo costituito oltre che da lui anche da uno schiavo lettore ed uno schiavo scrivano intenti nel riprendere il meglio di opere altrui per raccoglierle in un testo di erudizione.
L’enciclopedismo non aveva limiti di interessi, potendosi occupare indifferentemente di retorica, arte militare, come giurisprudenza, architettura, medicina, ecc.
Marco Tullio Cicerone si occupò abbastanza largamente di anatomia nel suo “ De Natura Deorum”, dove trovò modo di dedicare pagine intere a questo tema.
Vitruvio, architetto illustre, vissuto durante l’impero di Augusto fu autore di un’opera che fece testo, nella sua arte, e che è intitolata appunto “De Architectura”. Essa ha parecchi punti che possono interessare l’igiene edilizia in senso lato.
Nel capitolo IV del I libro, egli si occupa della costruzione della città dal punto di vista igienico, sia come scelta del luogo dove fondarle, sia per i tipi di costruzione. Nel libro VIII si occupa delle terme ed indica le regole che poi sono passate come canoni per questi tipi di edifici. Egli si interessò anche della potabilità delle acque, indicando i mezzi per riconoscerla; indica pure i danni derivanti dal piombo e le malattie di coloro che maneggiano questo metallo.
Importante è il trattato “
De Agricultura” di Marco Terenzio Varrone, in cui è contenuta un’intera parte riguardante la medicina (Libro II, cap. I) degli uomini e degli animali, e nella quale, forse per primo, classifica l’arte sanitaria come “Scientia”. Notevole è la sua allusione al contagio animato allorchè, trattando delle febbri palustri, pensa che queste possano essere generate da animaletti invisibili, attraverso la bocca e le narici, penetrando nel corpo e generando malattie (Libro I, cap. XII).
Tito Lucrezio Caro, nato nel 99 ac e morto nel 55 ac, merita un particolare cenno. Il suo poema, il “De Rerum Natura”, che venne considerato il più antico monumento della scienza a Roma, contiene abbondante materiale attinente alla biologia. Basandosi sulla concezione atomista di stampo epicureo, egli accenna anche a concetti che sembrano preludere a intuire quello della immunità e della selezione naturale della lotta per l’esistenza.
Lucio Giunio Moderato Columella, fiorito durante l’impero di Claudio, fu autore anche lui di un’opera intitolata “De Re Rustica”, nella quale si occupa di igiene generale, del clima, della salubrità delle acque, della formazione di miasmi generatori di malattie. Egli da indicazioni igieniche per la costruzione di case, piscine, abbeveratoi, raccomandando la costruzione di fognature.
Aulo Gellio, scrittore anch’egli enciclopedico fiorito intorno al 130 dc, riporta nelle sue “Notti Attiche”, numerosi riferimenti concernenti l’arte sanitaria desunti da molte opere mediche che egli afferma di aver consultato.
Lucio Anneo Seneca, i celebre filosofo moralista nato a Cordova nel 2 o 3 dc, è colui che riporta, forse, il maggior numero di notizie concernenti argomento medico. Preziosi sono i suoi ragguagli concernenti la vita e il funzionamento delle terme, sulla costituzione dei “valetudinaria”, ecc.

Ma i due enciclopedisti dell’epoca antica romana più celebri sono certamente Celso e Plinio il Vecchio.
A. Cornelio Celso [17] sarebbe stato un poligrafo, non un medico, che si occupò “anche” di medicina. Quintiliano ricorda che Celso “ha scritto di tutte queste arti (retorica, arte, poetica) ed in più di cose militari, agricole e lasciò dei precetti di medicina”. Orazio lo trattò da “plagiaro” e ladruncolo di scritti in custodia della Biblioteca Palatina. Lo stesso Quintiliano lo definì “vir mediocris ingenii”. La sua opera viene assegnata intorno al 25 dc, mentre il Pazzini la colloca intorno al 25 ac.
Il vero titolo dell’opera intera celsiana fu: “
A. Cornelii Celsi Artium Liber Sextus, idem Medicinae Primus”.
Il libro della medicina, il “
De Medicina” sarebbe stato il sesto della raccolta ed avrebbe seguito immediatamente quello sull’agricoltura.
Fondamentalmente, Celso è un ippocratico, sia per il sistema di ragionamento, sia per accettazione che egli fa dei libri del 
Corpus Hippocraticum. Tuttavia egli non disdegna altre dottrine, quando esse gli si mostrino adatte a spiegare i fenomeni. Così, per esempio, non disdegna i concetti della scuola metodica, specialmente allorchè tratta della terapia fisica, basata sull’uso dei bagni, né rigetta il principio della scuola alessandrina empirica, allorchè in chirurgia egli si attiene agli insegnamenti del chirurgo Claudio Filosseno, appunto di quella scuola.
L’opera è organicamente e solidamente costruita in otto libri. Comincia con una prefazione, nella quale si traccia una storia succinta della medicina e si espongono le dottrine dei tempi passati e di quelli presenti rispetto all’autore. I libri che compongono il “De Medicina”, sono, di solito, raggruppati dagli storici nel seguente modo: dietetica (dal I al IV libro); farmaceutica (V e VI libro); chirurgia (libri VII e VIII). Nei primi quattro libri, oltre a cognizioni concernenti la dietetica, esistono numerosi riferimenti di patologia, clinica, terapia, ecc.
In Celso l’anatomia appare importante più come aspirazione alla conoscenza che per la retta comprensione dei fenomeni pratici.
Nel campo della patologia appare un certo interesse per i disturbi psichiatrici come le allucinazioni e la confusione mentale oltre alle febbri cui vengono dedicati 16 capitoli del libro IV.
È stato detto che la parte dedicata alla chirurgia è la migliore di tutta l’opera celsiana. Interessante è il quadro che egli fa del perfetto chirurgo: giovane, forte, di vista acuta, abile ambidestro, coraggioso e spietato.
Per quanto riguarda il trattamento delle emorragie, se queste sono violente, Celso considera la legatura del vaso ferito isolato e non dei tessuti in maniera massiva, compresi i vasi feriti. La legatura è quindi una pratica di antica origina, e Celso è uno dei primi a consigliarla.
Per quanto riguarda la chirurgia delle ossa, Celso ricorda dettagliatamente la trapanazione del cranio, descrivendone gli strumenti adatti.
Tra le affezioni chirurgiche di altre parti del corpo vanno ricordate le ferite penetranti del ventre con lesioni dell’intestino di cui viene indicata la sutura con doppio ago; i vari tipi di ernie con relativi interventi. Importante è pure la tecnica delle operazioni delle emorroidi e delle varici.
Degna di particolare attenzione è l’operazione per estrarre i calcoli vescicali, operazione descritta minuziosamente e nota appunto con l’appellativo di operazione celsiana per distinguerla dal sistema rinnovato del XVI secolo.
L’oculistica rappresenta una delle parti salienti dell’opera: importante operazione ha l’operazione della cataratta.
Lo strumentario indicato nell’opera celsiana per la chirurgia è vastissimo e si possono contare non meno di 50 pezzi e sono quasi tutti quelli che sono stati rinvenuti negli scavi di Pompei ed Ercolano.
Nel campo dell’igiene ricordiamo l’igiene alimentare che riguarda l’uso degli alimenti e delle bevande ingrassanti e di quelli dimagranti, l’uso del vomito, in voga a quei tempi per sgravare lo stomaco dopo aver troppo mangiato, l’uso dei purganti, dei riscaldanti e dei refrigeranti, ecc.
Tra l’igiene e la terapia sta l’idroterapia, sistema igienico di cui Celso si mostra fautore. Egli riconosce maestro, in questo argomento Asclepiade di Bitinia e la sua dottrina metodica.

L’opera di Celso divenne capostipite di una metodologia trattatistica che continuerà per molti secoli, e l’opera verrà ricopiata, sebbene il suo nome taciuto. Celso passò ignorato, di nome, attraverso il medioevo, ma quanto Tommaso Parentucelli, che diventerà il papa Niccolò V, ne ritrovò il codice presso la biblioteca della chiesa milanese di S. Ambrogio, ne rimise in luce il valore, grande fu l’entusiamo suscitato che, il “De Medicina” fu una delle primissime, se non la prima, opere mediche ad avere l’onore del stampa nel 1472.
Per quanto riguarda il nome di Celso, l’iniziale “A.” fu interpretata abusivamente da Aldo Manuzio come “Aulus”, per sostituirla alla precedente interpretazione di “Aurelius”; ma lo stesso Manuzio dice che “Aulus” è semplice supposizione di un nome che comincia per “A”.

Di Caio Plinio Secondo [18], detto il Vecchio, nato a Como nel 23 d.c. e (secondo tradizione) morto nei giorni dell’eruzione del Vesuvio del 79 dc, l’altro grande enciclopedico, in mezzo a quattrocento opere, una ne scrisse che è rimasta: la “Historia Naturalis” [Storia Naturale].
A differenza di Celso, Plinio cita le sue fonti e se ne contano 525 tra latine e straniere. Egli stesso, nella lettera dedicatoria a Vespasiano Tito, asserisce di aver consultato ben duemila volumi per un complesso di ventimila notizie che sono raccolte nella sua Historia.
Plinio non sempre si dava la pena di controllare la verità delle asserzioni che trovava nei vari libri. Quando l’errore era evidente, quando egli poteva avere la persuasione, in qualsiasi modo, che l’affermazione da controllare fosse errata, non esitava ad esternare il suo giudizio. Ma spesso mostrava di accettare le notizie ripetute dagli altri senza troppo occuparsi se fossero vere o meno.
Personalmente, si occupò della coltivazione dei semplici in un giardino che aveva il medico Antonio Castore, ma quel che poteva controllare era poco di fronte alla vastità della materia che aveva preso a trattare.
Alcune sue nozioni furono precorritrici dei tempi: Neuburger mise in rilievo che nell’ottocento, C. Himly, lo scopritore dell’azione dilatatrice sulla sulla pupilla che hanno la belladonna e il giusquiamo, fu indotto a questa scoperta da un passo di Plinio (XXV, 92), nel quale si usa l’uso del succo della pianta anagallide prima dell’operazione della cataratta. Così pure in un altro passo della sua “Storia” (XXVI, 20) viene messa in rilievo l’azione benefica dell’efedra nella tosse e nell’asma.
L’opera era una specie di enciclopedia popolare rivolta, come afferma lo stesso autore, a persone ignoranti, e dunque non era un trattato di scienza pura.
La “
Storia Naturale” fu composta nel 76 dc ed è divisa in 37 libri. Il settimo libro contiene nozioni di antropologia mentre i libri ottavo-undicesimo trattano di zoologia. La botanica è contenuta dal dodicesimo al ventisettesimo libro. Dal ventottesimo al trentaduesimo libro vengono esposte le medicine tratte dagli animali, mentre dal trentatreesimo al trentasettesimo libro vengono trattati i minerali in generale e le medicine tratte da questi.
Una parte discretamente estesa viene dedicata, dunque, alla medicina, sia in termini di terapia che come ragguaglio di dottrine mediche allora vigenti, sia come storia di quelle che erano state prima di allora professate (il capitolo I del libro XXIX).
Plinio si mostra dal punto di vista delle dottrine mediche avverso ad Asclepiade e favorevole ad Ippocrate, mentre dal punto di vista terapeutico mostra di preferire i rimedi semplici a discapito di quelli composti, comportanti l’uso di droghe straniere. Mostra predilezione per alcuni semplici vegetali quali il verbasco e la betonica.

Da Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane va distinto un certo Plinio Valeriano, medico empirico che sarebbe vissuto assai più tardi, dopo Galeno, e che sarebbe stato autore di un trattato che venne stampato più volte, durante il Rinascimento, con il titolo “Plinii Secundi Valeriani Medicinae Libri V”.


FONTI:

[1] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pagg. 233-234
[2] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pag. 235
[3] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pag. 236-247
[4] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pag. 236-247
[5] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pag. 236-247
[6] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pag. 236-247
[7] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pag. 236-247
[8] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pag. 236-247
[9] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pagg. 248-249
[10] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pagg. 248-249
[11] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pagg. 249-250
[12] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pagg. 250-252
[13] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pagg. 250-252
[14] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pag. 252
[15] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pagg. 252-253
[16] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pagg. 253-271
[17] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pagg. 257-265
[18] “Storia dell’Arte Sanitaria” di Adalberto Pazzini, pagg. 265-271 


Articolo di Concetto De Luca (26/7/2014) 

Link a Strumentario chirurgico


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *